Impressioni dalla Biennale di San Paolo

La Biennale di San Paolo, curata da Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, quest’anno si concentra sulla relazione con la terra e con l’altro. Cerca di ricreare una polifonia di voci in un’eterotopia fisica, dove si incontrano i viandanti del mondo, per discutere e riscrivere insieme il concetto di umanità.
Un’umanità fatta di corpi, aspettative e nostalgie: elementi fisici e immateriali che cercano uno spazio di incontro, di dignità e di persistenza; Uno spazio di vita e racconto.

Il percorso, articolato nei tre piani della Fondazione nel Parque Ibirapuera di San Paolo, curato da Ndikung che da sempre lavora sui concetti di cura e umanità, inizia con un capitolo dedicato alla terra.

La terra è la radice, tanto fisica quanto psicologica, della cultura. A sua volta, la cultura dà forma agli spazi sulla terra, che le diverse comunità, incontrandosi, imparano a condividere. È attraverso l’ascolto reciproco che nascono spazi transnazionali, capaci di offrire rifugio e conforto, e di accogliere, almeno in parte, ciò che ognuno riconosce come la propria terra, la propria “casa”.

Il racconto prosegue con una riflessione sulle insorgenze e sul ritmo che ogni spazio imprime a chi lo abita. L’architettura, il tempo e la quotidianità scandiscono la vita degli individui. In città, questo ritmo spesso diventa violento: edifici verticali e imponenti, strutture blindate che negano riposo allo sguardo, una cadenza ossessiva che può risultare soffocante e annichilente per chi non vi è abituato. Questa stanchezza sfinente è generata da uno spazio imposto e serrato, che non ascolta né accoglie, e che traduce il consumismo in ritmo e architettura, soffocando creatività e intelligenza sotto uno stress più che fisico esistenziale.

Il quarto capitolo affronta il tema del flusso di cura e delle cosmologie plurali: la cura intesa come ascolto, tempo e spazio, spesso intrecciata a credenze, superstizioni, miti e simboli capaci di liberare dal ritmo imposto. Sono pratiche di resistenza alla violenza, storicamente radicate, particolarmente visibili nella cultura brasiliana. Oggi queste forme non solo testimoniano la possibilità di resistere, ma possono anche costituire un punto di partenza per aprirsi a ritmi alternativi rispetto a quelli occidentali.

Gran parte della Biennale parla di questa resistenza estetica, fisica e mentale contro la violenza spaziale e temporale imposta dai modelli occidentali. In spazi dove è difficile riconoscersi, dove non ci sono ombre autentiche né stelle, luci o volti veri, tutto appare veloce, replicato, artificiale.

Viene spontaneo chiedersi: di cosa parliamo quando parliamo di tempo, valore e cura? Perché guardare a pratiche ancestrali o ad altre culture sembra essenziale per comprenderli?



Questa Biennale non è un tentativo di redimere pratiche di consumo ormai consolidate, né un nostalgico ritorno a forme di un passato lontano ed esotico. Propone invece terre, ritmi, flussi e grammatiche antiche e moderne, alternative a quelle delle grandi “metropoli”, per ricordarci che esistono altri modi possibili di vivere il tempo e lo spazio. Invita a pensare che il dialogo e l’ascolto possano aprire a ritmi più sostenibili, per esseri viventi e natura.

La bellezza del mondo esiste e resiste, anche tra i palazzi che ci soffocano e nelle vite logorate da ambizioni estranee. Ed è una bellezza “intrattabile” (omaggio a Koyo Kouoh): non si può consumare, comprare, programmare per poi “tornare al reale” ritmo del metronomo occidentale. Come la fede, la bellezza concede respiro, dà speranza e permette di ritrovarsi negli spazi di vita, trovando la forza per resistere.

Io questo l’ho imparato in una realtà piccola e privilegiata, dal ritmo disordinato, che però non esplode mai: ogni giorno ricomincia nuovo, dimenticando le tempeste passate. Caricarsi della bellezza intrattabile del mondo significa procedere nella creazione di spazi di incontro.

Perché ogni ritmo che non ci appartiene è tremendo: rischia di inghiottirci e portarci lontano dalla nostra stessa identità.

Cosa ci fa una storica dell’arte alla Biennale di Architettura di Venezia?

È con lo sguardo di una storica dell’arte che ho attraversato le texture delle proposte della Biennale Architettura 2025, a partire dalla mostra principale all’Arsenale. Qui, le tematiche urgenti del nostro tempo (crisi ambientale, trasformazione digitale e il ruolo della collettività) danno forma e senso ai materiali dei nostri spazi vitali.
Centrale, da secoli, rimane il concetto dell’abitare, colto nei suoi significati profondi di rifugio, protezione e identità.

Entrando nell’Arsenale l’impatto è immediato: ci accoglie un ambiente caldo, insopportabilmente umido, che ci espone a uno stress termico insostenibile. Subito dopo, un’aria fresca e riconfortante ci avvolge, evidenziando come il privilegio del nostro tempo sia poter disporre di spazi climatici tollerabili. Si tratta di luoghi dove è possibile fermarsi e riflettere, dove esercitare il pensiero critico.

Proseguendo tra gli spazi dell’Arsenale, emerge un altro tema centrale: il binomio intelligenza artificiale – natura organica. Due mondi apparentemente distanti che, oggi, possono collaborare grazie all’intelligenza umana. Si delinea un nuovo e digitalissimo umanesimo, fondato sul potere demiurgico dell’uomo. Non è più la mano a plasmare la realtà, ma la ragione a controllare la natura per raggiungere i propri scopi.

Il senso permane, lo scopo cambia: se nel Rinascimento si rimodellava la realtà in funzione del piacere estetico, oggi si lavora per rendere la natura più efficiente rispetto alle nostre urgenze, perdendo però la sua identità di “interlocutore, controcorpo” (Han) .

Si cerca collaborazione là dove ciò che è naturale, per definizione, sfugge al controllo. Si ripensa la manipolazione non più come espressione del bisogno umano o della nostra identità sociale, politica e culturale, ma come una possibile alleanza armonica che segue le regole dell’ambiente.

Tutto questo prende forma in un percorso tra piante create in laboratorio e installazioni video basate sull’ intelligenza artificiale.
Progressivamente, si insinua una domanda: possiamo davvero avere tutto? Una natura bella, collaborativa, efficiente? È la natura stessa descrivibile, dicibile, comunicabile o controllabile?

Nel frattempo, si sperimentano nuovi spazi, pubblici e privati, ripartendo da un concetto fondante e da sempre stressato all’estremo: il tetto, il rifugio.
Abbiamo costruito le nostre abitazioni per proteggerci dalla violenza dell’esterno, ma quella stessa violenza è entrata nei nostri spazi più intimi attraverso l’altro, li ha corrotti e ci ha riportati verso l’esterno.
Il rifugio antico, oggi, ci fa sentire più esposti e vulnerabili che mai.

Chiediamo alla natura di tornare a insegnarci il ritmo della vita, di entrare con noi tra le mura domestiche, di restituirci quella quiete che abbiamo smarrito.

Natura e intelligenza artificiale: due “altri” che non condividono il nostro spazio. Ma chi abita davvero il nostro rifugio?

Passeggiando tra le opere della Biennale, emergono domande sul nostro rapporto con l’altro: spesso guardato da lontano, senza voce, senza sguardo.
E sul confine tra naturale e artificiale, che cerchiamo di armonizzare quasi con violenza.
Ci muoviamo tra angosce sociali e climatiche, cercando soluzioni senza davvero guardarci negli occhi.
Ma abitare con l’altro significa condividere vita, ritmi, progetti, con fiducia e reciprocità.
Solo così possiamo creare relazioni orizzontali e sviluppare insieme una coscienza condivisa, che si estende a natura e animali, per costruire insieme “il migliore dei mondi possibili”.

Riflessioni dalla Biennale di Venezia 2024

Il cubismo insegna che moltiplicare le prospettive porta alla perdita della tridimensionalità della realtà: essa si appiattisce, diventando più semplice e immediata.

Similmente a questo movimento artistico, la Biennale 2024 si presenta come una concatenazione concettuale e bidimensionale delle possibili espressioni di “straniero”. È un racconto-raccolta che prescinde dal tempo e dallo spazio (non abbiamo tempo e non abbiamo spazio), avanzando nella riflessione attraverso un accostamento di immagini che, volutamente, evita la stratificazione. Questa scelta, a mio avviso, rappresenta una rinuncia alla profondità e quindi alla complessità.

Durante le giornate trascorse a Venezia, emerge gradualmente la necessità di abbandonare l’idea di comprendere l’altro a tutti i costi, di “verticalizzare e scavare”. Si approda invece a un’esperienza più autentica e diretta: un’“esperienza partecipativa” in espansione, in cui lo straniero viene osservato da diverse prospettive, “voracemente” e “ovunque”.

Il processo che prende vita a Venezia è fatto di disgregazione e aggregazione, un percorso organico in cui ci si sfuma nell’altro, rinunciando a immaginarlo secondo categorie predefinite. Ci si trova a “com-porre” l’intersoggettività e a scom-porre la soggettività, interrogandosi su come sia possibile convivere senza conflitti e fraintendimenti, senza “alterare o confondere”.

L’allestimento di Pedrosa sembra indicare una via. L’arte non è più la “rosa gialla” di Borges, il simbolo che parla di sé stesso, ma torna a raccontare qualcosa. Resta però incerto quale sia l’oggetto della speculazione: l’arte diventa lo strumento stesso di questa ricerca. Una ricerca verso un linguaggio comune, che “allow us to become parent”.

In altre parole, questa Biennale costruisce una cacofonia di suggestioni: una carrellata di alterità che si susseguono senza sovrapporsi. È un dito che indica qualcosa dai contorni sfumati, ancora in evoluzione. L’arte oggi è proprio questa armonia sospesa in La bemolle, rappresentata con grande efficacia nel Padiglione Italia di Bartolini.

Al termine del percorso, ci si può fermare nel Giardino delle Vergini per pensare, pregare, meditare e collocare anche il nostro pensiero -oltre che il nostro corpo- dove tutte le linee si incrociano: nella dimensione del presente.

In questo giardino, i ritmi discordi di tempi e spazi diversi si fondono in una melodia unica. È un intreccio che inquieta e trattiene, opacizza e insieme preannuncia qualcosa, accettando di non definirlo.

Siamo davvero presenti e “Stranieri Ovunque”: nell’alterità troviamo la chiave di volta per uscire dalle prigioni culturali di cui siamo schiavi da troppo tempo.
La Biennale di Venezia, quest’anno, ci invita all’ascolto e all’osservazione, ci invita a partecipare al “carnevale” dei mondi possibili. Finalmente nessuna maschera prevale sull’altra, e si depongono le armi per iniziare la vera e propria resistenza.

Lucia Palladino, artista transdisciplinare, descrive con precisione la natura di questa tensione, definendola “attivismo contemplativo”: una forma di resistenza che richiede pazienza e invita a fermarsi, lasciando all’arte il compito di suggerire e generare alterità emotive, formali, culturali e storiche.
Se “la semplicità è una complessità risolta”, allora Stranieri Ovunque e i suoi eventi collaterali ci invitano all’ascolto, e ci predispongono ad accogliere la complessità passata, con l’intento non dichiarato di semplificare ciò che verrà.

SERGIO CARANDO

Sergio Carando (1951) è un grafico, fotografo ed artista originario di Borgo d’Ale, in provincia di Vercelli. In questa città studia pittura e decorazione, sviluppando il gusto verso un’arte preziosa e sofisticata. Attenzione però, il lavoro di Carando non allude alla preziosità quale sinonimo di sfarzo e opulenza, ma richiama l’aspetto più etico del termine e lo concretizza servendosi di tecniche complesse e materiali pregiati.

Carando è consapevole che l’eleganza risiede nella finitura del tocco e che l’armonia della composizione può trasportare e affascinare soltanto se sapientemente diretta. Ed infatti da compositore esperto dirige gli strumenti artistici con rara consapevolezza, per creare opere di una sorprendente ed eccezionale intensità.

Il quadro supera i confini imposti dalla cornice e finisce per diventare, come gran parte dei soggetti dell’artista, un vero e proprio classico. Un classico è ciò che procede nella storia riferendo sempre sé stesso, è uno spazio nello spazio, una dimensione mitica dove sogni, enigmi ed emozioni maturano liberamente. Allo stesso modo, le opere di Sergio Carando suggeriscono visioni d’altri tempi, riportano suggestioni antiche e le traslano nell’epoca moderna.

Proprio il dialogo con la storia appassiona e seduce chi guarda e riconosce nelle linee e nelle cromie di queste superfici la propria identità. Lo spettatore è trasportato nella trascendenza divina dell’oro, viene abbracciato dall’oltremare celeste, per poi trovare un rassicurante rifugio nel verde serafico. L’esperienza continua nell’ abbaglio dell’argento e termina tra le sfumature di rossi vertiginosamente profondi.

Le inattese sensazioni che i lavori sono in grado di suscitare nascono da un’ampia ricerca intellettuale e sono il frutto di un lavoro meticoloso ed appassionato, che richiede tempi di realizzazione estesi.

Nello specifico, per la maggior parte delle opere Carando usa come supporto una varietà pregiata di carta giapponese. Questo materiale ospita poi gli interventi successivi dell’artista: la stesura della tempera e l’applicazione della foglia d’oro o d’argento. Questa ultima fase è la più delicata perché la foglia è tanto preziosa quanto fragile e, affinché aderisca alla carta, è necessario porsi per qualche secondo in una condizione di “apnea”.

Successivamente l’artista estrae i pastelli soffici dalle scatole in cui sono custoditi rispetto alla tonalità e procede con la colorazione delle zone prescelte. Al termine di questo lungo processo avviene la finitura: Carando rimuove le eccedenze del pastello come fossero zucchero a velo, poi fissa il lavoro con un protettivo per impedire che materiali possano alterarsi.

Il risultato finale è eccezionalmente potente: un’intesa perfetta tra la nobiltà dei materiali selezionati e i colori che li integrano e valorizzano. Appena la luce incontra le superfici delle opere ogni parte acquista forza e significato, costruendo un dialogo con il resto delle componenti, lo spettatore e lo spazio circostante.

Sergio Carando è un artista colto, raffinato ed entusiasta che attraverso le sue opere crea con passione un discorso sinuoso e lineare, come una lezione di filosofia.

Trasportati in un oceano di ricordi e simboli che emergono simili a “reperti archeologici”, non si può far altro che lasciarsi coinvolgere nel turbinio di suggestioni di cui l’artista ci fa dono.

SIMONE LEIGH

Gli artisti e le artiste della Biennale di Venezia 2022 si interrogano prevalentemente sul significato e la natura dell’identità.

In questi anni abbiamo assistito all’avvento ed al sopravvento della trans umanità, che supera i pregiudizi e considera ogni cosa niente più di quel che è. Di conseguenza cambia la percezione del corpo: ora non ha più identici con i quali confrontarsi, è concepito come mero involucro ed ha la sola pretesa di accompagnarci materialmente su questa terra.

Di fronte a questi processi ci si sente disorientati e ci si domanda: “se il corpo si risolve ad una presenza, come si esprime l’identità?”

A questo proposito nel padiglione del Regno Unito Sonia Boyce esprime le sue insicurezze attraverso videoinstallazioni accompagnate da alcune riflessioni. Tra queste spicca l’interrogativo: “cosa vi serve per sentirvi liberi di esprimere voi stessi quando non siete limitati da ciò che gli altri pensano che dovreste o potreste essere? Cosa significa sentirsi liberi?”.

La Biennale 2022 però non induce a porsi solo domande, restituisce anche numerose risposte!

In tal senso è esemplificativo il caso della vincitrice del Leone d’oro Simone Leigh, che apre le porte alla discussione sull’identità e, con modi fermi ed educati, ci guida alla ricerca delle possibili soluzioni.

La monumentale scultura in bronzo posta all’inizio dell’arsenale è un intervento che avvia un processo di auto coscienza ed auto storicizzazione. Di fronte a questa imponente matrona ci si sente in un primo momento impotenti e a disagio. Successivamente si reagisce alla sgradevole sensazione cercando uno sguardo umano e, non trovandolo, ci si trova inevitabilmente a sostituire i propri occhi a quelli mancanti della scultura.

Il risultato di questo processo è un ampliamento dell’inadeguatezza iniziale, perché ora non solo ci si sente fragili, ma ci si vede anche sproporzionatamente miseri.

In tal modo Simone rende presente, comprensibile ed evidente una “colpa bianca”, capace di farci sentire improvvisamente tutto il peso di una storia e di una cultura che chiedono riconoscimento e accettazione.

Le sculture senza volto di Simone Leigh sono soggetti/oggetti complessi, non sono vittime né carnefici finché noi non diamo loro una voce, uno sguardo e riscopriamo così il nostro stesso.

Inaspettatamente sorge una sensazione perturbante, un malessere psico-fisico associabile al senso di colpa. Si compie così un processo spontaneo di autocritica in cui l’opera raccoglie aspettative e mutamenti e diviene uno spazio di relazioni.

I lavori di Simone avviano una trasformazione estetica, in grado di liberare il fruitore psicologicamente, fisicamente, socialmente e politicamente.

Per questi motivi apprezzo che sia stata premiata alla Biennale e ne ammiro le qualità creative.

59° BIENNALE DI VENEZIA

Riflessioni sulla Biennale “Postumana” di Cecilia Alemani

La Biennale di quest’anno mette in scena la rivoluzione Postumana che sta coinvolgendo il mondo negli ultimi decenni.

È utile ricordare che con l’avvento dell’Umanesimo si è assegnato all’arte un valore storico, ciò al fine di poterla significare, collocare e giudicare (oltre al criterio estetico).

Se togliamo all’arte il suo valore storico rimane quindi quello estetico.

Ma andando oltre, se proviamo a togliere all’arte il suo valore estetico ed ancora rinunciamo ad ordinare la realtà in senso valoriale per giustificarne un’organizzazione gerarchica, scopriremo che artistico non è nulla ed è al contempo tutto.

Il postumano conduce alla vera e propria “morte dell’arte”, dove l’aura dell’artista scompare e nello stesso momento si estende a ciascun*.

Beuys se ne accorse precocemente ed infatti è famosa la sua affermazione: “everybody is an artist”, di fronte ai lavori esposti nella 59° Biennale possiamo dirlo anche noi.

In effetti è impossibile non notare quanto la dimensione creativa non sia più “allegoria, ma estensione sensoriale”, alla quale approcciare non più in qualità di osservatori (“maestri impliciti dei discorsi culturali”), ma esseri umani.

Scorrendo le opere in mostra ci si emancipa progressivamente dalla ricerca dell’identificazione, iniziando liberamente a “fare la parte di” nella moltitudine immensa delle possibilità della vita, ovvero quelle “reti complesse, interdipendenti e fluide” di cui si parla e soprattutto si vede in Biennale.

Cecilia Alemani ha menzionato Rosi Braidotti all’apertura dell’evento e proprio dalle sue parole ha inizio la vicenda artistica contemporanea, che parte dalla Biennale e prosegue verso “gli orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e androcentrico”.  

In conclusione, dopo la rassegna veneziana abbiamo il dovere di riconoscere ed interpretare “la svolta postumana come una felice opportunità di decidere insieme chi e cosa vogliamo divenire».

Angela Calderan

NICOLO’ BORGESE

Nicolò Borgese è un giovane artista nato nel 1990 a Torino, città in cui tuttora risiede e opera.

Sin da piccolo è attirato dai mutamenti spontanei del mondo naturale e dalla capacità intrinseca ai diversi materiali di trasformarsi imprevedibilmente seguendo ritmiche indipendenti.

Questa sua curiosità verso le possibilità di manipolazione della materia porta Nicolò ad iscriversi alla celebre Accademia di Belle Arti di Torino. Qui approfondisce i suoi interessi ed affina le proprie capacità artistiche, fino a scoprire in sé stesso inattese e peculiari doti creative. In effetti, Nicolò si distingue nel corso dei suoi Studi per la consapevolezza con cui gestisce materiali complessi e per l’originalità con cui li addomestica per introdurli nella sua ideale dimensione artistica.

Nicolò Borgese, Copper Wall, 2019, Rame e cemento, 120x250cm.

La laurea a pieni voti chiosa un percorso agevolato da una forte propensione all’arte, che inaspettatamente gli Studi accademici hanno saputo enfatizzare e non soffocare. Nel mondo artistico è infatti frequente che gli spiriti creativi più eccentrici si mostrino insofferenti di fronte a un’impostazione formativa di stampo convenzionale. Al contrario, Nicolò si dimostra coerente nel disegnare sin dagli esordi in Accademia una strada indipendente, lasciando come traccia preziosa del suo percorso lavori dalle forme inedite ed emozionanti.

Proprio questa spiccata originalità consente una rapida ascesa nel mondo lavorativo: ne sono prova le diverse partecipazioni a concorsi internazionali nonché le esposizioni in gallerie di prestigio. In particolare, l’artista attira l’attenzione del noto gallerista Davide Paludetto, il quale propone le sue opere nelle edizioni X e XI di Paratissima (Torino 2014, 2015). Non sono solo collezionisti e appassionati d’arte, ma anche i curatori a notare le capacità di Nicolò, che viene inserito da Francesca Canfora prima nella collettiva sCOLPITI DALLA CRISI (Rivara e Torino, 2014) e successivamente nell’esposizione TRASMUTAZIONI. Oltre l’uomo e la materia (Vercelli e Torino, 2015). Ma non è tutto, perché il giovane artista attira anche l’attenzione della curatrice Elena Radovix, la quale lo inserisce in diverse mostre collettive: Una frisa di metallo (Torino 2019); Spazi di memoria (Alessandria 2019) e REVIVESCENTIART (Torino 2020). Da ultimo, vale la pena citare ulteriori concorsi a cui Nicolò partecipa con risultati particolarmente positivi. Ne costituiscono un concreto esempio La vittoria del XIV Premio Nazionale delle Arti (Torino 2019); la partecipazione alla celebre Biennale di Monza (Monza 2021) e al COFFI Italian Film e Art Festival di Berlino (Berlino 2015).

Nicolò Borgese, 400, 2019, rame,.

Le capacità del giovane artista sono evidenti da un confronto immediato con le sue opere: è impossibile non apprezzare il frutto di uno studio maturo ed accurato dei materiali e non rimanere sorpresi dall’abilità dimostrata nel governarne la disposizione spaziale. Ciò che caratterizza Nicolò è un approccio alla creazione paziente, in grado di assecondare le proprie idee artistiche ed al contempo di rispettare la natura delle sostanze in esse coinvolte. L’atelier del ragazzo si è arricchito nel tempo e oggi sfoggia una modesta quantità di lavori, ma ancora si tratta di capitoli iniziali di una narrazione in continuo mutamento. A tale proposito vale la pena ribadire quanto le trasformazioni dei materiali che compongono le opere dell’artista seguano un ritmo autonomo, che soltanto la mano esperta di Nicolò sa interrompere quando nella bozza identifica l’opera compiuta.

Il risultato è il più delle volte sorprendente: si tratta di composizioni seducenti in cui le linee si incrociano definendo spazi geometrici di una profondità vertiginosa. I riquadri che danno forma ed equilibrio a lavori come Copper Wall o 900 racchiudono un divertente e mai superficiale carnevale cromatico, in cui i colori trionfano luminosi attribuendo carattere all’ambiente in cui le opere sono collocate.

Si finisce così per essere coinvolti in un inedito dialogo con l’artista, costruito in un gioco di luce e diversità dei materiali: dalle strette relazioni tra cromie, linee e superfici traspare una nuova modalità comunicativa che apre la strada ad un’espressione artistica inedita ed appassionante.

Osservando le opere si può concludere che: da un lato, le composizioni dell’artista sembrano preservare un armonico equilibrio tra forze contrastanti, giocando con la spinta all’evasione cromatica della materia compressa nelle griglie, la quale genera una tensione magnetica eccezionalmente intensa; dall’altro lato, stupisce pensare che questo linguaggio nuovo non è che il frutto spontaneo dell’attrazione fatale tra Nicolò e il materiale di volta in volta prescelto. Un percorso privo di complicate sovrastrutture mentali che si sviluppa agevolmente grazie alla confidenza innata con la materia.

Nicolò Borgese, Dicotomia Acida, 2020, rame, acido e plexiglass, 50X50 cm.

Il nostro artista governa con disinvoltura sostanze dall’essenza mutevole, restituisce loro una forma nuova e finisce per concretizzare di fronte allo sguardo dello spettatore spazi di dignità eccezionalmente indipendenti.

Angela Calderan

ALBERTO BURRI

Dal 9 ottobre 2021 al 30 gennaio 2021 alla Fondazione Ferrero di Alba è possibile visitare la mostra “Burri. La poesia della materia”. Si tratta di un evento espositivo unico, in cui Bruno Corà ha tentato di concentrare in poche sale tutte le fasi della lunga vicenda artistica di Alberto Burri. Il percorso allestitivo scelto dal noto curatore non solo consente allo spettatore di entrare pienamente in sintonia con le intenzioni di un artista restio all’uso della parola, ma permette anche di cogliere tutte le influenze e le ascendenze culturali che ne hanno segnato l’opera.

Lo sviluppo dell’esposizione è caratterizzato dalla successione di supporti dai quali emergono come presenze fisiche i diversi materiali scelti dall’artista nel corso della vita. Queste costruzioni si ribellano alla bidimensionalità della tela e come attori ed attrici simulano teatralmente una comunicazione pari a quella tra i corpi vivi. Si tratta di presenze (o invadenze) che non provocano piacere in chi osserva, ma turbano ed opprimono perchè alludono senza illudere alle fragilità umane. Burri usa materiali “ostili” per mettere in scena una rappresentazione veritiera e realistica del mondo, dove l’osservatore si scopre in tutta la sua vulnerabilità. Per fare ciò l’artista rende lo spazio espositivo un vero e proprio campo di battaglia, dove l’uomo è assediato da una materia che irrompe e minacciosa brucia, fino consumargli l’ossigeno e rendere l’atmosfera soffocante.

Il confronto vis a vis con i lavori di Burri denuncia la natura sfuggente della materia artificiale, che appare esentarsi da qualsiasi controllo e crea da sé un nuovo linguaggio ben più efficace della parola. Questo è possibile perchè la realtà concreta basta a sè stessa, occupa la mente sinesteticamente, ed impedisce qualsiasi tipo di capriola mentale. L’urgenza espressiva dei materiali presentati da Burri sembra premere sull’umanità che si rapporta con essa. Lo spettatore sensibile può aprirsi a queste suggestioni materiche per farsi accompagnare, sollevare ed infine ferire dal loro inesorabile incedere. La visita si conclude con una riflessione sul linguaggio e sui suoi limiti: i lavori di Burri distruggono la comunicazione precostruita e dettano una nuova grammatica, dove il fraintendimento è impossibile. In definitiva, gridano senza fare rumore che l’umano è fragile e denunciano le tensioni di un’esistenza in precario equilibrio tra forze distruttive ed edificanti.

GIANLUCA CUTRUPI

GIANLUCA CUTRUPI (Savona 1970)

Gianluca Cutrupi è un artista, ingegnere e designer di Savona. Il Fondatore della Kélyfos Gallery di Albisola considera l’arte un’“espressione libera”, capace di comunicare in modo immediato l’essenza estetica degli oggetti. In effetti, proprio l’esperienza nel design contemporaneo permette a Cutrupi di razionalizzare l’immaginario, restituendogli un’eccezionale armonia. Nelle mani esperte di Gianluca l’elemento fantastico è cristallizzato in forme essenziali. Si tratta di superfici seducenti che introducono lo spettatore in una realtà utopica, dove funzionalità ed estetica non bisticciano. L’opera del gallerista non stupisce soltanto perché rappresenta un’eccezionale concretizzazione dell’immaginario, ma anche per l’eterogeneità del suo iter formativo. Gianluca sembra giocare con lo spettatore, perché nasconde nelle forme semplici delle sue opere processi di costruzione complessi. Il più delle volte l’artista usa la ceramica, integrando alla fase di progettazione un accurato lavoro artigianale. Gli insegnamenti appresi tra le botteghe del savonese gli hanno infatti permesso di apprendere le tecniche moderne e tradizionali della manipolazione della ceramica. Queste sue molteplici qualità non sfuggono allo sguardo della critica nazionale, che gli ha riconosciuto importanti meriti. In particolare, di Cutrupi è apprezzata la capacità di restituire equilibrio al disordine del POP. Nelle forme esteticamente perfette dei suoi lavori si celebrano simultaneamente due strumenti artistici: la mano ed il computer. L’opera di Cutrupi è un’espressione compiuta dell’interdisciplinarietà artistica contemporanea, che parla il linguaggio moderno ma mantiene uno sguardo consapevole sulla storia passata. L’epilogo è la perla della Kélyfos: creazioni dalle cromie squillanti, capaci di restituire nuova linfa vitale alla tradizione.

ROBERTO GIANNOTTI

ROBERTO GIANNOTTI (Savona 1962)

Roberto Giannotti appare una personalità poliedrica, una figura “a tutto tondo” e difficile da decifrare. Per queste ragioni incarna perfettamente l’ideale artista contemporaneo, capace di declinare i suoi molteplici interessi in creazioni innovative, che attirano l’attenzione e stimolano a pensieri inediti. L’artista, giornalista, architetto e designer savonese maneggia con sicurezza diversi materiali, introducendoli in una dimensione leggera ed ironica, di “gioco”. È proprio il ritorno alle fantasie infantili ad attirare lo sguardo dello spettatore sui suoi lavori. Chi vive la contemporaneità è abituato a prendersi sul serio e solo nel ricordo fanciullesco riesce a scoprire l’aspetto ludico dell’esistenza. Si tratta di un’interpretazione visionaria del reale di indescrivibile bellezza. Una bellezza semplice ma perfetta, che Giannotti riporta con delicatezza ai nostri occhi. Questi oggetti alleggeriscono la realtà, restituendogli la purezza ingenua della funzionalità. Giannotti trasforma il design in “una risorsa”, grazie alle capacità acquisite lavorando nelle più celebri botteghe d’Italia. In tal modo l’artista diviene in breve tempo un esperto artigiano, capace di restituire bellezza e praticità a materiali vivi e complessi come la ceramica, il vetro, la carta. I suoi lavori ridono dell’uso che vorremmo farne, sono giochi formali che servono a qualcosa ma dicono altro. ed è proprio quest’evasione mentale che sanno innescare a renderli così eccezionali. Occupano lo spazio reale ma accompagnano il nostro sguardo altrove. Nell’eterotopia conquistata da Giannotti la leggerezza diviene protagonista di ogni vicenda umana e “colora la vita come il sole colora i fiori”.

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