Berlinde De Bruyckere

Da novembre gli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ospitano la mostra monografica di Berlinde De Bruyckere dal titolo Altheia (dal greco rivelazione).

Berlinde De BruyckereFondazione Sandretto Re Rebaudengo

L’artista Berlinde De Bruyckere ha creato per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo una serie inedita di sculture monumentali.

L’artista belga sfida a duello l’animo impreparato dell’osservatore e propone con audacia temi generalmente evitati, quali la morte e la sofferenza fisica. Nello specifico, Berlinde ci propone una serie di opere organizzate in modo organico e coerente.

La mostra è articolata come una favola, dove gli eventi assumono significato in virtù di un finale edificante. I protagonisti della narrazione corrispondono alle riproduzioni in cera dei cumoli di pelli delle concerie di Anderlecht. In questi spazi emerge come l’epidermide, solitamente adibita alla protezione dell’anima, sia in realtà estremamente fragile.

La pelle muta forma con facilità svelando così l’inconsistenza dell’essere che precedentemente delimitava. Il sale che Berlinde cosparge negli ambienti della Fondazione contribuisce a rendere l’esperienza straniante. Lo spettatore è sottoposto ad una prova ignota, dove l’angoscia viene trasfigurata in una dimensione sospesa, astratta.

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Chi visita la mostra giunge all’ultima sala preparato all’epifania e l’artista belga non delude l’aspettativa. Al contrario, Berlinde usa la forza espressiva dell’opera d’arte per sciogliere di fronte al nostro sguardo incredulo il nodo esistenziale più complesso: l’antico conflitto tra vita e morte.

Il percorso proposto dall’artista si conclude con un trionfo di petali in fiore. La materia che inizialmente urtava la nostra sensibilità ha affrontato un percorso di redenzione e si è rivelata, in definitiva, una preziosa fonte di bellezza.

L’opera di Berlinde ci restituisce alla violenza cittadina arricchiti da uno spirito nuovo. Quello stato d’animo che permise a Baudelaire di riconoscere nella Carogne l’Altheia di un fiore.

San Martino e il povero

Salvatore Mangione, San Martino e il povero, 1973, Galleria d’Arte Moderna, Torino.

Secondo la teoria matematica di Wittgenstein è giusto tutto ciò che diventa comune: Salvatore Mangione, in arte Salvo, riflette su tale teoria attraverso il mezzo artistico.

Di fronte all’opera conservata alla GAM di Torino “San Martino e il povero” rimaniamo immediatamente spaesati: la tela in questione è molto simile alla celeberrima opera cinquecentesca “San Martino divide il mantello con un mendicante” di El Greco. Ci troviamo però nella sala del museo dedicata all’arte italiana più recente.

Indubbiamente avere una certa familiarità con il soggetto induce a prolungare lo sguardo sulle peculiarità dell’opera. Rimaniamo quindi infastiditi nel constatare che il San Martino di El Greco, tradizionalmente riconosciuto capolavoro dell’arte moderna, viene manomesso in maniera estremamente maldestra e kitsch. Salvo decide infatti di sostituire i colori tetri della tela cinquecentesca con cromie piatte e vivide. Si tratta delle stesse tonalità brillanti a cui ci abitua un mondo privo di profondità, montato spesso attraverso accattivanti immagini televisive.

Salvo dunque attualizza il capolavoro, ma resta insoddisfatto e decide di annidarsi nella “bellezza riconosciuta” con fare provocatorio. Ecco che il viso di San Martino viene sostituito con quello della moglie ed Inizia una sfida aperta tra l’artista affermato dalla tradizione e la giocosità estrema di quello contemporaneo. L’attacco prosegue dal punto di vista iconografico: la figura simbolica del Santo viene paragonata a quella di una donna comune, la moglie di Salvo.

Se concediamo all’opera l’opportunità di non indisporre la nostra pazienza, ci renderemo conto che l’artista sta cercando di instaurare con noi un dialogo meno banale di quanto sembri. Di fatto Salvo rivendica in modo efficace la propria eccezionalità, l’artista sceglie di agire all’interno di una coralità consolidata e si appella alla dimensione collettiva.

Le forme del capolavoro vengono di conseguenza private forzosamente del proprio peso e volume. L’artista realizza una semplificazione dissacrante ma necessaria per esprimere in toto la profondità del concetto. L’osservatore si trova coinvolto inaspettatamente in un’esperienza tutt’altro che scontata. Appare evidente come l’opera di Salvo ci inviti a riflettere sul valore che diamo alla nostra realtà, su quali aspettative nutriamo riguardo l’arte e chi la produce. L’artista torinese pare indicare se stesso ed alzare la voce chiedendoci di poter prendere parte all’eterna favola della storia dell’arte.

In definitiva, dall’opera di Salvo emerge come solo attraverso un soggetto semplice diventa possibile comunicare con libertà questioni complesse. L’artista propone con ostentata banalità un concetto tanto problematico come quello della posizione dell’artista nella società contemporanea. Ciò permette allo spettatore di accedere inaspettatamente ad un’ampia riflessione sulla realtà che pratica ogni giorno.  A tal proposito Salvo dichiara: “a me è sempre piaciuto l’aspetto ambiguo delle cose: il falso primitivismo, la falsa ingenuità, il falso incolto, il falso stupido, perchè tutto ciò e è apparentemente intelligente, tecnico io lo trovo oltremodo fastidioso. Non lascia mistero”.

Evviva dunque l’artificio che corrompe il simulacro adattandolo all’oggi. È proprio nello scarto tra l’aspettativa e la realtà che si scopre l’essere, basta non arrendersi alla complessità del gioco.

Angela Calderan

Matteo Roetto (english)

It is a warm and sun-kissed day in Turin when the artist Matteo Roetto welcomes me into his homeatelier.
As soon as I laid foot inside, I found myself surrounded by a mystic atmosphere: I had the perception of travelling to an imaginary dimension. White high walls of the artist’s apartment; sun reflecting wide windows that let the bright sunbeam turn the hanging art pieces into gold. Rays of sunlight complete the spectrum of colour of the room.
Matteo’s workspace can generate a bizarre feeling in the guest’s soul: king and queen of the atmosphere are stranding and attraction towards the abstract and figurative canvas.
The artist from Pinerolo welcomes me to a round table and before he settles with me, he glances at the tools he needs to perfect his pieces. Matteo starts narrating about his life, recalling his own experiences as if he was an external narrator: his story is an intricate string of extraordinary episodes, revealing visions and intricate situations. The artist’s eyes seem to tend beyond a point I can not define; his singularity does not want to be grasped. Matteo looks at the developments of his roots from beyond the leafy branch of his core being; he slightly tilts his neck and he likes to change perspective to see everything that has happened in his life in a new light. I find myself deep
in this artist’s self-investigating process and I surrender to the simplicity of his story. I’m fascinated by imagining the nature of his stories, with no demand for grasping the meaning of “and foundering is sweet in such a sea”. Now, admiring again the pieces hung on the walls, I resemble in them the extension of the artist’s lifestream: a mad quest to reach and conquer expressive freedom. During the stream of our conversation, I appreciate all those literal, musical and artistic references that Matteo quotes: Battiato, Schopenhauer, and Picasso, all speaking the same language.
Ideally allied artists in a utopian tower of Babel.
The artist is genuinely characterized by a sense of “deep feeling”. It is all about personalities able to express, through artistic visions, the variety of trajectories that the soul describes. Like a demiurge, Matteo always experiments different artistic paths, bringing his production through figurative paintings, celestial landscapes, raw and violent installations. Complex and contradictory sceneries rise, but thanks to the artist’s tough personal experiences, he can command them. He knows how to discern his possibilities, by saying “que oui et que non” to the variety of choices that life offers us.
Matteo is “lost in a redemption labyrinth” but unlike Borges’ Asterion, he’s not defeated. The artist resurfaces, and he is aware of his inability to translate the depth of the subconscious; nevertheless, he does not surrender to evoke that magic observed during his explorations, in his art.
His long-lasting reference towards celestial experiences is emphasized by the use of Prussian blue, Matteo’s favourite. With this colour, the artist prompt to “another” world. He invites us to broaden our sight to an alternative version of reality, where matter opens new and astonishing perspectives.
Today, Matteo is not scared of the “empty spaces” of the mind, anymore; he knows when it’s necessary to open his eyes again, when to turn his back on fantasies and dreams driven by the artistic world, and when it’s time to put himself into his daily office life.
It is hard to accept and forgive our humanity. Matteo’s art pieces suggest a rough path, where selfawareness and derangement intertwine.
We are fragile and irrational, but we always preserve art, in stillness and through the storm; anyhow and anywhen.
Thanks Matteo.

(translated by Giorgia Zanfardin)

Matteo Roetto

Pochi giorni fa, in una Torino illuminata da un sole eccezionalmente pieno e caldo, l’artista Matteo Roetto mi ha gentilmente aperto le porte della sua casa-atelier. La sensazione, appena entrata, è stata di piacevole straniamento: ho avuto la percezione di venire trasportata in una dimensione straordinaria. Le pareti bianche e alte dell’appartamento dell’artista, interrotte da ampie finestre atte a riflettere la luce del sole, permettono ai suoi raggi luminosissimi di indorare le opere appese ai muri, fino ad impreziosirne le cromie. L’ambiente di lavoro di Matteo ha così la capacità ultima di generare nell’animo dell’ospite un effetto insolito: lo smarrimento si accompagna ad un’inevitabile attrazione per le tele astratte e figurative che popolano l’atelier.

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L’artista pinerolese mi fa accomodare alla tavola tonda e, prima di sistemarsi, rivolge una rapida occhiata agli strumenti di cui si serve per rifinire i propri lavori. Matteo inizia quindi a parlare e, nel raccontarsi, ripercorre le proprie vicende personali come se fosse un narratore estraneo: episodi fuori dall’ordinario, visioni rivelatrici e situazioni complesse si susseguono in un racconto concitato. Gli occhi dell’artista sembrano orientati verso un oltre che non riesco a definire, la sua è un’individualità ambigua che non vuole essere afferrata. Matteo osserva gli sviluppi contorti delle proprie radici dall’alto dalle fronde del suo essere, inclina il collo e gioca a cambiare prospettiva fino considerare in modo sempre nuovo il proprio vissuto.  Io vengo trascinata in questo processo esplorativo, mi arrendo alla spontaneità del suo racconto e mi accontento, infine, di immaginare la natura delle sue storie, senza pretendere di afferrarne il significato “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Ora, volgendo nuovamente lo sguardo alle opere alle pareti, vi riconosco l’estensione del vissuto dell’artista: una folle ricerca per raggiungere e meritare la libertà espressiva. Nel procedere del nostro dialogo apprezzo tutti quei riferimenti letterari, musicali ed artistici che Matteo inconsciamente cita: Battiato, Schopenhauer, e Picasso parlano tutti la stessa lingua. Artisti idealmente congiunti in una torre di babele utopica.

Il “profondo sentire” è ciò che caratterizza la figura dell’artista. Si tratta di personalità capaci di esprimere, attraverso la materia artistica, la varietà delle traiettorie che l’animo descrive: percorsi sempre nuovi che Matteo, come un demiurgo, trasferisce nella sua produzione attraverso dipinti figurativi, paesaggi eterei, installazioni crude e violente. Emergono scenari complessi e contradditori, ma che l’artista, facendo tesoro di un’esperienza di vita complessa, riesce a dominare grazie alla sua capacità di dire “que oui et que non” alla varietà di scelte che l’esistere ci offre. Matteo si è “smarrito nel labirinto delle proprie passioni” ma, contrariamente all’Asterione di Borges, non ne è rimasto sopraffatto. L’artista torna in superficie consapevole dell’impossibilità di tradurre le profondità dell’inconscio, ma non rinuncia a suggerire, nelle proprie opere, quegli incanti osservati durante le sue esplorazioni. Tra i dettagli che rinviano ad esperienze ultraterrene è esemplificativo l’utilizzo del Blu di Prussia, la cromia privilegiata da Matteo. Attraverso questo colore, infatti, l’artista rimanda ad un mondo “altro”: ci invita ad allargare lo sguardo verso una versione alternativa della realtà, in cui la materia apre varchi d’accesso verso nuove e stupefacenti prospettive. L’artista, oggi, non teme più gli “spazi vuoti” e sterminati della mente, sa riconoscere il momento in cui è necessario riaprire gli occhi, voltare le spalle alle fantasie ed ai sogni cui l’arte rimanda ed applicarsi con attenta dedizione alla quotidianità del lavoro d’ufficio.

E’ difficile accettare e perdonare la propria umanità e le opere di Matteo suggeriscono un percorso tormentato, in cui la consapevolezza s’alterna alla vertigine.

Siamo fragili e folli ma conserviamo l’arte, nella quiete e nella burrasca, sempre e comunque. Grazie Matteo.

Angela Calderan

Renzo Marasca

Ho avuto occasione di conoscere Renzo Marasca alla Fusion Art Gallery di Torino, uno spazio indipendente e stimolante in cui Barbara Fragogna promuove insoliti interventi d’artista.

Renzo è originario del centro Italia, ma, dopo aver abitato a Berlino e Barcellona, ha deciso di stabilirsi in Portogallo “lontano dalla tradizione della forma”. Chi viaggia, si sa, conserva la propria casa negli occhi. In effetti, lo sguardo sicuro e trasparente dell’artista marchigiano agevola da subito un dialogo aperto e genuino fra noi. Marasca riflette con me sulla mostra in corso negli spazi bianchi della galleria di Barbara: le opere esposte dal 14 dicembre raccontano il rapporto confidenziale che Renzo ha progressivamente costruito con il mare negli anni trascorsi in Portogallo.  Si tratta di un’intima connessione che l’artista traspone all’interno di una nuova serie di opere. Queste creazioni, rinviando l’una all’altra, danno forma ad un ciclo compiuto, la cui origine è ravvisabile in “O Mar Silente”. La galleria si trasforma nella battigia ideale, dove l’arte, come l’onda marina, si concretizza dinnanzi all’osservatore in una concatenazione dinamica e spontanea.

L’opera principale, “O Mar Silente” è costituita da un telo steso verticalmente alla parete. L’artista sceglie di saturare il panno bianco attraverso segni d’azzurri “inediti”, accompagnati da residui salini e sabbiosi. Di fronte all’opera viene installata una “nota a piè pagina”: una riproduzione video dell’incedere e retrocedere, continuo e silenzioso del mare, di fronte agli sguardi distratti dei passanti. Renzo ha la capacità di coinvolgere totalmente lo spettatore: è facile immaginarsi improvvisamente a piedi scalzi sul lido portoghese, persi tra le dinamiche celesti degli abissi. I ritmi cadenzati delle onde trasportano il percipiente in territori sconosciuti, dove il mare inghiotte l’animo umano, lo conduce oltre il cosciente e lo restituisce a sé stesso come un osso di seppia sulla battigia, consumato ed al contempo rinnovato, sublimato dall’esperienza del trascendente.

Renzo sorride delle speculazioni interpretative che suscitano le sue creazioni, “quell’esprimersi delle idee in parole inevitabili”. L’artista marchigiano sfugge ai miei tentativi di indentificare le teorie alla base delle sue opere, cerca in ogni modo di estraniarsi “dalla dittatura dello spettatore”. Secondo Renzo, infatti, l’opera d’arte non nasce da un progetto, ma da un “processo mentale”. Quest’ultimo è tradotto necessariamente “dalla mia mano destra” fino a che lo stimolo creativo non si riconosce soddisfatto. L’artista giustifica in tal modo l’estrema varietà della sua produzione, che trova espressione per via di forme e materiali diversificati. Osservando le creazioni di Renzo possiamo però notare diversi punti di contatto: primo fra tutti il gusto verso una forma in continua evoluzione, tanto che la materia esorbita dal supporto assegnatole, rivelando così la sua potenzialità emotiva. Il gesto di creazione artistica, in tal senso, si serve della materia e al contempo la vivifica, attribuendole un valore nuovo, “umano, troppo umano”.  L’artista, come un mare silenzioso, inghiotte l’oggetto e lo restituisce imperfetto al mondo:  impregnata dai detriti e dai ricordi, la materia rinnova nell’esperienza creativa il suo significato e diviene Opera d’Arte.

“Guardare il fiume che è tempo e acqua

E pensare che il tempo è un altro fiume, sapere che ci perdiamo come il fiume e che passano i volti come l’acqua.

Raccontano che Ulisse, stanco di prodigi, pianse d’amore quando avvistò Itaca umile e verde. L’arte è questa Itaca di verde eternità, non di prodigi.

È anche come il fiume interminabile che passa e resta, ed è specchio di uno stesso Eraclito incostante che è lo stesso e un altro, come il fiume interminabile.

L’arte deve essere come quello specchio che ci rivela il nostro stesso volto.

L’arte è un fiume, un’onda che svela e nasconde continuamente.”

Fernando Pessoa

Angela Calderan

Carlo Iorietti

Ho avuto occasione di conoscere Carlo Iorietti poco tempo fa, in veste di membro fondatore del “Collettivo37” con “Ale” (Alessandro Merlo) e “Roby” (Roberto Borra). Nel 2016 i tre amici danno vita ad un progetto ambizioso, volto ad arricchire e rinnovare il panorama creativo torinese. Si tratta di un’utopia in corso di realizzazione tutt’oggi, tanto nelle attività dell’associazione quanto nelle opere che i tre artisti continuano a produrre.

Collettivo 37 rappresenta per Carlo Iorietti un’occasione per maturare nuove conoscenze, che determinano un cambiamento sensibile nel suo sviluppo artistico. L’artista, infatti, percepisce con sempre maggiore insofferenza i limiti dei canoni compositivi appresi negli anni della formazione accademica, fino a che nel 2015 decide di abbandonare in modo definitivo la dimensione figurativa. Inizia così un percorso dedicato all’esplorazione di quelle dimensioni astratte che, a ben vedere, già comparivano timidamente negli ultimi ritratti.

Lo scenario in cui Iorietti si trova a dipingere è una corrida ideale: la sede dello scontro è il proprio atelier. Si tratta di un confronto tormentato, la cui complessità emerge nei caratteri drammatici del ciclo legato alle teste di toro. L’artista, invero, raggiunge una dimensione libera, dove tutto diviene possibile ed opportuno. Le opere realizzate dal 2015 colpiscono per la ricchezza delle cromie: tonalità squillanti, accostate di volta in volta in maniera diversa, finiscono per generare tensioni che eccitano l’animo dello spettatore. Si tratta di un’esperienza intensa, interamente consumata nella fantasia dell’osservatore: uno sfogo coloristico e sensuale, capace di proiettarci vertiginosamente oltre i limiti della coscienza.

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L’artista torinese riconosce nel colore il mezzo adatto a trasmettere le proprie percezioni. L’intensità delle cromie determina “una pittura onesta”, non suscettibile di essere fraintesa come la parola, ma che si sviluppa “sotto forma di una scrittura che inventa segni e che non cerca di imitare”.  I sogni infantili si intrecciano alle utopie dell’uomo adulto e si librano come colombe, dal celeste degli occhi di Carlo agli aranci intensi delle tele che popolano lo studio. L’opera dell’artista riflette una ricerca interminabile, che sfugge a sé stessa, senza mai realizzarsi in modo compiuto. L’arte di Iorietti è un’arte da “godere” che rifiuta qualsiasi intellettualismo, in accordo con le considerazioni di Picasso:

“Tutti vogliono capire la pittura. Perché non cercano di capire il canto degli uccelli? Perché amiamo una notte, un fiore, tutto quanto circonda l’uomo senza cercare di capire? Mentre nel caso della pittura la gente vuole capire…L’artista lavora per necessità”.

Il segno pittorico di Carlo è un mezzo capace di soddisfare una necessità espressiva in continua evoluzione: i colori appaiono l’unica terapia capace di acquietare l’animo esigente dell’artista. Il percipiente nella trasparenza dell’opera coglie il riflesso del suo creatore, il quale ci offre un dono prezioso: un’esperienza unica, compiuta e goduta.

Cromie e libertà. Un respiro profondo verso l’infinito.

Grazie Carlo

Angela Calderan

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